Il 3 luglio 1911 c'era un certo fermento tra i paesi di Songavazzo e Rovetta, in Alta Val Seriana. Era infatti il giorno dell'inaugurazione del nuovo ponte che doveva finalmente collegarli, evitando agli abitanti un giro tortuoso per superare il torrente Valleggia.
Non si trattava della prima opera costruita per quello scopo: il precedente ponte, in legno, progettato e costruito nel 1827-1829 dall’ingegner Fedrighini, era stato ripetutamente colpito dalle piene e definitivamente distrutto nel 1842. Da allora gli abitanti dei due paesi erano in una situazione assai scomoda, di cui si erano spesso lamentati con le autorità.
Ma un ponte, per quanto importante e necessario, rimane pur sempre un ponte, penserà qualcuno. Non è sempre così.
Tralasciando la triste nomea locale, per altro recente, di "ponte dei suicidi" (facilmente spiegabile vista la notevole altezza e la facilità di accesso) sono ben altri i motivi per appassionarsi alla storia di quest’opera.
Il motivo lo spiega l’interessante volume "Qui si fa il ponte!" (2004), curato da ricercatori, tecnici e studiosi e patrocinato dal comune di Songavazzo, che getta nuova luce su quello che non è un ponte come tutti gli altri perché destinato a fare storia.
Progettato nel 1907 dall’ingegner Cortese di Clusone, è uno dei primissimi ponti in tutta Italia costruiti utilizzando la nuova tecnica del cemento armato. Non si trattò di una scelta facile, lo dimostra la quantità di progetti presentati e poi rigettati dal comune. La scelta ricadde sul progetto Cortese, la ditta vincitrice dell’appalto fu la Diss & C. di Düsseldorf e il cemento utilizzato era quello della “Società Italiana dei Cementi e delle Calci Idrauliche – Società Riunite Italiane e Fratelli Pesenti”, divenuta Italcementi nel 1927.
Ma quella struttura snella ed elegante, con le campate che paiono sospese in precario equilibrio, è lontana dalla solidità rassicurante dei più classici ponti in pietra dell’immaginario popolare. Forse per questo non mancarono tra la popolazione i timori sulla sua tenuta, specialmente il giorno del collaudo: quattro muli con un doppio carro carico di calcina viva equivalente a cento quintali passarono sul ponte “senza nessun uomo che li accompagnasse, perché la paura di un crollo era tanta” riferisce un testimone.
Paure rivelatesi decisamente infondate: dopo il ’45 il ponte resistette al passaggio, questa volta non previsto, di un’intera colonna di carri armati che, non avendo capito l’ordine di avanzare uno alla volta, attraversarono il ponte tutti insieme causando non poco spavento all’ufficiale responsabile, che riferì di aver visto il ponte “barcollare”. Tutto nella norma però: è nota la flessibilità del nuovo materiale di fronte alle sollecitazioni.
Il ponte resistette al suo primo secolo di vita e non dimostra neppure gli anni che ha: proprio in occasione del centenario, nel 2011, l’opera è stata sottoposta a una serie di ispezioni e test di stabilità per verificarne lo stato, risultando in ottima salute.
La storia del ponte di Songavazzo è una bella testimonianza non solo di storia locale, ma anche del fermento intellettuale e tecnico che l’inizio del Novecento portava con sé; un ottimismo e un’apertura al nuovo che oggi, nonostante il gran parlare di innovazione e futuro, fatichiamo a ritrovare.
A volte bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo; a volte è necessario pensare oltre i propri limiti, scoprendoli superabili. Andare oltre, collegarsi con quel che sembrava impossibile, stabilire nuovi punti di riferimento da cui guardare avanti verso nuovi lidi.
Un ponte, in fin dei conti, fa proprio questo.